La canzone napoletana.
Si sentiva cantare. A Napoli, forse fino a una trentina di anni fa, si sentiva cantare un pò da per tutto, senza "chitarre e manduline" e senza nessun accompagnamento. Il canto di cui parlo non era una rappresentazione a beneficio di altri, si cantava per sè: per "sbariare", per vivere un momento di pausa, per commuoversi o rallegrarsi, quandio si era ancora inconsapevoli che cantare può esser anche una specie di terapia contro l' ansia e la depressione.(...) Poi, si è sentito cantare sempre meno; questo bisogno, nei napoletani, diventati come tutti più spettatori che attori, e quindi, più ascoltatori che "cantatori", oggi sembra quasi estinto. Non sono più i tempi in cui si acquistavano centottantamila copielle (numericamente circa la metà dei napoletani di allora) per "cantarsi" "Te voglio bene assaie". (Dal Prologo di Salvatore Palomba)
Voglio cantare e si nun canto moro,
e si nun canto me sento murire.
Me sento fa' nu nudeco a lu core,
nisciuno amante nre lo po'sciuglire.
antico canto popolare
l canto perduto
Si sentiva cantare. A Napoli, forse fino a una trentina di anni fa, si sentiva cantare un po' da per tutto, senza "chitarre e manduline" e senza nessun accompagnamento. Il canto di cui parlo non era una rappresentazione a beneficio di altri, si cantava per sé: per "sbariare", per vivere un momento di pausa, per commuoversi o rallegrarsi, quando si era ancora inconsapevoli che cantare può essere anche una specie di terapia contro l'ansia e la depressione.
Anch'io cantavo da ragazzo: una volta mi incantai appresso alle note di Maria Marì e solo un improvviso e ironico applauso dei miei familiari mi riportò sulla terra.
Da un balcone aperto o dalla strada veniva, ogni tanto, una canzone, un ritornello, una frase: voci di gente comune, voci isolate, voci di chi forse voleva inconsciamente placare una pena o ingentilire per un attimo il tran tran quotidiano.
E questo non lo si può ottenere facendo andare la radio o il registratore a tutto volume.
Accanto alla fruizione della canzone ascoltata, il cui contesto si modificava man mano nel tempo (strada, taverna, casa nobiliare, festa di Piedigrotta, caffè all'aperto, café chantant, ristorante, teatro, e poi anche dischi, radio e televisione), sussisteva quest'altro rapporto, più diretto e coinvolgente, fermo nel tempo e del tutto personale.
E come chi legge un libro interagisce con la pagina scritta, interpretando in maniera personale fatti e personaggi, così chi canta, frugando soprattutto nella sua memoria, contribuisce un poco a ricreare quel canto. Così è stato forse per secoli, fino a quando la canzone ha fatto parte della memoria collettiva dei napoletani, e quindi della loro formazione, della loro cultura e anche della loro vita quotidiana.
I versi delle canzoni sono stati per molto tempo - così come i versetti della Bibbia per alcuni popoli - i testi più diffusi fra i ceti popolari e, forse, l'unica forma di poesia nota; e i motivi delle canzoni hanno costituito per tante persone quasi le uniche musiche conosciute.
Le copielle, i famosi foglietti con i versi stampati che si vendevano a centinaia di migliaia, erano nate per soddisfare questa esigenza di canto. I "canzonieri" - raccolte di soli testi - si trasmettevano di generazione in generazione, e di generazione in generazione venivano arricchite le loro collezioni.
Nelle audizioni di Piedigrotta, alla fine dell'esecuzione di ogni nuova canzone, entrava in scena, sostenuto da un uomo nascosto alla vista degli spettatori, un grosso cartellone con i versi scritti in grande, affinché il pubblico potesse leggerli e intonarli insieme al cantante, nel corso dei numerosi bis che questi concedeva proprio per favorire l'apprendimento delle parole e della musica.
Ci si allontanava dal teatro, continuando a canticchiare il motivo che più ci aveva colpito, quello che era diventato già un po' nostro, e si ricominciava a cantarlo il giorno dopo. Questo accadeva ancora intorno al 1950, durante le Piedigrotte a cui ho assistito, anche se c'era una fiorente industria discografica, con cantanti che vendevano decine di migliaia di dischi, e anche se le canzoni napoletane venivano trasmesse continuamente dalla radio.
Poi, si è sentito cantare sempre meno; questo bisogno, nei napoletani, diventati come tutti più spettatori che attori e, quindi, più ascoltatori che "cantatori", oggi sembra quasi estinto.
Non sono più i tempi in cui si acquistavano centottantamila copielle (numericamente circa la metà dei napoletani di allora) per "cantarsi" Te voglio bene assale.
Non si sente quasi più cantare una voce solitaria, e l'ammuina di qualche sorta di karaoke collettivo: «Oj vita, oj vita mia», e «Ncoppa jammo, jà», tanto per sfogarsi tutti insieme, è evidentemente un'altra cosa.
Anch'io cantavo da ragazzo: una volta mi incantai appresso alle note di Maria Marì e solo un improvviso e ironico applauso dei miei familiari mi riportò sulla terra.
Da un balcone aperto o dalla strada veniva, ogni tanto, una canzone, un ritornello, una frase: voci di gente comune, voci isolate, voci di chi forse voleva inconsciamente placare una pena o ingentilire per un attimo il tran tran quotidiano.
E questo non lo si può ottenere facendo andare la radio o il registratore a tutto volume.
Accanto alla fruizione della canzone ascoltata, il cui contesto si modificava man mano nel tempo (strada, taverna, casa nobiliare, festa di Piedigrotta, caffè all'aperto, café chantant, ristorante, teatro, e poi anche dischi, radio e televisione), sussisteva quest'altro rapporto, più diretto e coinvolgente, fermo nel tempo e del tutto personale.
E come chi legge un libro interagisce con la pagina scritta, interpretando in maniera personale fatti e personaggi, così chi canta, frugando soprattutto nella sua memoria, contribuisce un poco a ricreare quel canto. Così è stato forse per secoli, fino a quando la canzone ha fatto parte della memoria collettiva dei napoletani, e quindi della loro formazione, della loro cultura e anche della loro vita quotidiana.
I versi delle canzoni sono stati per molto tempo - così come i versetti della Bibbia per alcuni popoli - i testi più diffusi fra i ceti popolari e, forse, l'unica forma di poesia nota; e i motivi delle canzoni hanno costituito per tante persone quasi le uniche musiche conosciute.
Le copielle, i famosi foglietti con i versi stampati che si vendevano a centinaia di migliaia, erano nate per soddisfare questa esigenza di canto. I "canzonieri" - raccolte di soli testi - si trasmettevano di generazione in generazione, e di generazione in generazione venivano arricchite le loro collezioni.
Nelle audizioni di Piedigrotta, alla fine dell'esecuzione di ogni nuova canzone, entrava in scena, sostenuto da un uomo nascosto alla vista degli spettatori, un grosso cartellone con i versi scritti in grande, affinché il pubblico potesse leggerli e intonarli insieme al cantante, nel corso dei numerosi bis che questi concedeva proprio per favorire l'apprendimento delle parole e della musica.
Ci si allontanava dal teatro, continuando a canticchiare il motivo che più ci aveva colpito, quello che era diventato già un po' nostro, e si ricominciava a cantarlo il giorno dopo. Questo accadeva ancora intorno al 1950, durante le Piedigrotte a cui ho assistito, anche se c'era una fiorente industria discografica, con cantanti che vendevano decine di migliaia di dischi, e anche se le canzoni napoletane venivano trasmesse continuamente dalla radio.
Poi, si è sentito cantare sempre meno; questo bisogno, nei napoletani, diventati come tutti più spettatori che attori e, quindi, più ascoltatori che "cantatori", oggi sembra quasi estinto.
Non sono più i tempi in cui si acquistavano centottantamila copielle (numericamente circa la metà dei napoletani di allora) per "cantarsi" Te voglio bene assale.
Non si sente quasi più cantare una voce solitaria, e l'ammuina di qualche sorta di karaoke collettivo: «Oj vita, oj vita mia», e «Ncoppa jammo, jà», tanto per sfogarsi tutti insieme, è evidentemente un'altra cosa.
Ed. L'ancora del Mediterraneo - Napoli 2001