Alla fine degli anni '50 forma un trio di rock 'n' roll con Alberto Radius e un altro musicista; il debutto ufficiale avviene nel 1959 quando incide con Flavio Carraresi una versione di Venus.
Per qualche tempo suona nel complesso Gli Svitati con cui incide un 45 giri, e poi diventa il bassista di Gepy & Gepy; nel 1968 incide con l'RCA Talent Così ti amo, cover di To Love Somebody dei Bee Gees, che riscuote più successo nella versione dei Califfi.
Firma poi un contratto discografico con la CAT Records, etichetta di Alberto Durante, di cui diventa anche direttore artistico e per cui incide alcuni 45 giri.
Nel 1970 conosce Fiorella Mannoia, di cui diventa produttore e con cui inizia anche una relazione sentimentale; collabora con la cantante per tutto il primo periodo della sua carriera, incidendo anche un album insieme nel 1972.
Pur continuando la carriera come cantante solista, si dedica alla composizione per altri artisti, scrivendo tra le altre Amerika per Christian De Sica, Cavalli alati per Alberto Cheli e altre canzoni per Mia Martini.
È morta sotto i bombardamenti russi a Kiev la giornalista russa Oksana Baulina. Baulina, che lavorava per The Insider, stava filmando quel che restava del distretto di Podolsk a Kiev, dopo i pesanti bombardamenti da parte dell’esercito di Mosca. Durante il bombardamento è morto anche un civile, mentre due collaboratori della giornalista sono rimasti feriti e ricoverati in ospedale. In precedenza, la giornalista aveva lavorato all’Anti-Corruption Foundation, l’organizzazione fondata dall’oppositore del Cremlino Alexei Navalny, ed era stata costretta ad abbandonare la Russia. In qualità di inviata e corrispondente, Oskana Baulina ha lavorato principalmente tra Leopoli e Kiev. I colleghi e le colleghe della giornalista, nel riportare la notizia della sua morte, dopo aver espresso «le più sentite condoglianze alla famiglia e agli amici di Oksana», hanno aggiunto: «Continueremo a coprire la guerra in Ucraina, compresi i crimini russi come il bombardamento indiscriminato di aree residenziali dove vengono uccisi civili e giornalisti».
Katya Dyachenko, ginnasta ucraina di 11 anni, è morta seppellita dalle macerie a Mariupol. I bombardamenti russi hanno distrutto l’abitazione in cui si trovava. Ad annunciare la morte della bambina, il coach Anastasia Meshchanenkova su Instagram.
A Mariupol c’è «un gelido paesaggio infernale ricoperto di cadaveri e di edifici distrutti». Questa è la testimonianza di decine di migliaia di residenti fuggiti dalla città portuale meridionale assediata dalle truppe russe, riferita da Human Rights Watch (Hrw). Le immagini satellitari di Mariupol che la Maxar (società di tecnologia spaziale specializzata nella produzione di satelliti) ha rilasciato mostrano un paesaggio carbonizzato, edifici in fiamme e il fumo che fluttua sulla città. «Ci hanno bombardato negli ultimi 20 giorni», ha detto Viktoria Totsen, 39 anni, fuggita in Polonia, citata da The Guardian. «Durante gli ultimi cinque giorni gli aerei ci sorvolavano ogni cinque secondi e lanciavano bombe ovunque su edifici residenziali, asili, scuole, dappertutto. È chiaro che gli occupanti non sono interessati alla città di Mariupol, vogliono raderla al suolo, ridurla alla cenere di una terra morta», ha detto un funzionario locale. Nel bollettino delle forze armate di Kiev odierno si dice che la città è ancora difesa dagli ucraini.
rainews.it - Boris Romanchenko, il 96enne sopravvissuto a 4 campi di sterminio tedeschi ucciso da un razzo russo Romanchenko fu catturato dai tedeschi nel 1942 e internato a Dortmund come prigioniero di guerra. Nell'ottobre 1943 riuscì a fuggire ma catturato di nuovo dai tedeschi fu deportato a Buchenwald e costretto ai lavori forzati. Successivamente Romanchenko fu obbligato a collaborare con i tedeschi alla realizzazione dei missili balistici V2 nella base di Peenemünde, prima si essere trasferito nei campi di concentramento di Mittelbau-Dora e Bergen-Belsen.
Dopo la guerra, il 96enne ha contribuito ad istituire una rete di aiuti per le ex vittime della persecuzione nazista in Ucraina. Ha partecipato a numerose commemorazioni della shoah, per non dimenticare, indossando l'uniforme a righe con il triangolo rosso cucito sul petto a indicare gli internati politici.
nextquotidiano - Konstantin Olmezov, il matematico ucraino che si è tolto la vita dopo due tentativi di fuga dalla Russia “Non posso più sopportare gli orrori di quello che sta succedendo”: è il messaggio scritto su un biglietto lasciato da Konstantin Olmezov prima di suicidarsi: matematico di 26 anni di origine Ucraina, ha deciso di togliersi la vita dopo essere arrestato due volte per aver tentato di lasciare la Russia. L’ultima volta che aveva provato a fuggire dal Paese era il 26 febbraio, due giorni dopo l’inizio dell’invasione di Putin in Ucraina. Fu fermato e detenuto per due settimane.
A rendere nota la sua storia è l’associazione Ukrainan Mathematicians su Twitter, che ha rilanciato le parole dell’avvocato russo Dmitry Zakhvatov alla testata Ukrinform: “Ho ricevuto un rapporto in cui si dice che questa mattina (ieri, ndr) Konstantin Olmezov si è suicidato, lasciando un biglietto di addio dove ha scritto che si è ucciso perché non poteva sopportare gli orrori di quello che sta succedendo. Un matematico talentuoso e promettente”. L’associazione scrive che Konstantin aveva studiato all’Università Nazionale di Donetsk, che ha dovuto lasciare a causa della guerra continuando poi gli studi di matematica al Moscow Institute of Physics and Technology (Mipt), nella capitale russa. “Konstantin – ricordano i colleghi – era innamorato della combinatoria additiva. Era anche un poeta, il suo canale su Telegram è pieno di poesie”.
In patria era conosciuto anche per aver fatto il doppiatore nei film 'Il Re Leone' e 'Lo Hobbit', secondo quanto si legge in un post su Facebook di Sergiy Tomilenko, presidente dell'Unione nazionale dei giornalisti dell'Ucraina. Più recentemente, Lee è apparso nel dramma televisivo 2021 'Provincial'.
Le forze aeree italo-tedesche dichiararono di aver avuto come obiettivo dell'attacco il ponte Rentería, sul fiume Mundakako Itsasadarra, per appoggiare gli sforzi bellici dei nazionalisti franchisti nell'offensiva in corso nella provincia basca della Biscaglia per rovesciare le forze fedeli al governo della Repubblica spagnola, bombe che il forte vento deviò sulla città. In realtà si trattò di un bombardamento terroristico contro la popolazione civile e contro la città, come risulta da fonti e testimonianze sia contemporanee all’evento sia del dopoguerra.
Nel marzo 1937 il generale franchista Emilio Mola, impartì gli ordini preliminari per una campagna terrestre nella regione della Biscaglia, con lo scopo di eliminare la presenza delle forze repubblicane formate dai nazionalisti baschi dell’Euzko Gudarostea, da battaglioni delle Asturie e di Santander, e da formazioni comuniste e repubblicane dell’Unión General de Trabajadores (UGT) e del Confederación Nacional del Trabajo (CNT). Queste formazioni controllavano i monti Maroto, Albertía e Jarinto, occupati dai baschi durante l’offensiva contro Villareal dell’anno precedente, dalle cui cime poteva controllare il fronte tenuto dalle forze nazionaliste che nell’autunno del 1936 avevano conquistato San Sebastián e ora - dopo quattro inutili attacchi verso Madrid - intendevano conquistare le regioni accerchiate del nord e occupare i porti di Bilbao, Santander e Gijón da cui i repubblicani ricevevano rifornimenti e cibo per la popolazione.
Le forze nazionaliste erano basate sulla divisione “Navarra” di Alfonso Vega, formata da quattro brigate carliste, e sulla brigata mista “Frecce Nere” formata da 8 000 spagnoli comandati da ufficiali italiani e dotata di carri leggeri L3FIAT-Ansaldo, supportate dalle forze aeree della Legione Condor della Luftwaffe concentrate a Vitoria in cui erano di stanza i caccia, e Burgos, dove erano presenti i gruppi di bombardamento. I baschi di contro avevano una piccolissima aviazione da caccia per la difesa, per cui la Legione Condor fu in grado di mettere a rischio gli antiquati Heinkel He 51 come cacciabombardieri per l’appoggio ravvicinato al suolo in attesa dei moderni Messerschmitt. Il generale tedesco Hugo Sperrle, comandante della Legione, in quel periodo era con Francisco Franco a Salamanca, per cui le forze d’attacco che avrebbero cooperato con le forze del generale Mola furono lasciate al comando operativo del colonnello Wolfram von Richthofen, che poteva contare su tre gruppi di bombardieri Junkers Ju 52, un gruppo sperimentale di Heinkel He 111, tre gruppi caccia di He 51 e mezzo gruppo caccia di Messerschmitt Bf 109 non completamente operativi. L’Aviazione Legionaria italiana contribuì con l’appoggio di bombardieri Savoia-Marchetti S.M.81 e S.M.79 oltre che con i caccia Fiat C.R.32.
Dopo l’ultimatum lanciato alle forze repubblicane «[...] se non vi sottometterete subito raderò al suolo la Biscaglia», Mola ordinò un’avanzata da sud-est, che ebbe inizio il 31 marzo 1936 con un attacco terrestre contro le tre montagne. I nazionalisti mostrarono subito la propria schiacciante superiorità aerea: le cittadine di Elorrio e di Durango, nelle retrovie del fronte, vennero sottoposte a violenti incursioni a ondate successive di bombardieri Ju 52 e S.M.81 partiti da Soria. Durango, senza difese antiaeree e senza alcuna presenza militare, venne bombardata deliberatamente per colpire i civili, e mentre i civili scappavano lasciando la città, un’ondata di He 51 fatta alzare appositamente in volo andò a caccia delle colonne di civili in fuga. In totale 250 persone persero la vita durante l’azione.
Successivamente da Radio Siviglia il generale Queipo del Llano dichiarò che «[...] i nostri aerei hanno bombardato obiettivi militari a Durango» e dato che nel bombardamento venne colpita una chiesa, causando la morte di 14 suore e del sacerdote che stavano officiando la messa, per far ricadere la colpa di questo sugli avversari, dichiarò anche che «in seguito i comunisti e socialisti hanno rinchiuso preti e suore, uccidendoli senza pietà e incendiando le chiese». Sul fronte di terra le tre montagne furono colpite da un concentramento di artiglieria e da bombardamenti aerei della Legione Condor, che tagliarono tutte le vie di comunicazione e le linee telefoniche dei repubblicani come le linee avanzate. Il giorno seguente una serie di attacchi aerei contro la città di Ochandiano e i suoi dintorni provocò una breccia nel fronte, mentre i difensori sprovvisti di armi per contrastare le forze aeree italo-tedesche, venivano inevitabilmente colpiti dall’alto. Le forze basche continuarono però a resistere e riuscirono a trincerarsi e a battersi con efficacia.
Il 26 aprile 1937 alle ore 16:30 circa il campanile della chiesa di Guernica, una cittadina di circa 7 000 abitanti posizionata a 10 chilometri dalla linea del fronte, cominciò a battere il segnale di attacco aereo. Era il giorno del mercato e molti contadini con il loro bestiame erano presenti nella cittadina, già piena peraltro di profughi che davanti all’avanzata del nemico vi si erano rifugiati. Al suono dell’allarme i cittadini scesero nelle cantine destinate a refugios contro le incursioni, ma inaspettatamente comparvero solo due ricognitori che dopo un largo giro sopra Guernica fecero ritorno alla base. La maggior parte della popolazione della città quindi uscì dai rifugi, inconsapevoli di essere stati scelti per partecipare ad un tipico esperimento tedesco: valutare in pratica l’efficacia di un massiccio bombardamento aereo. Un quarto d’ora dopo l’intero gruppo da bombardamento comparve in cielo, sganciando ordigni di ogni tipo, da bombe convenzionali a quelle incendiarie. Si scatenò subito il caos, le persone cercavano di rientrare nei rifugi, poi si allarmarono perché si resero presto conto che gli stessi non erano in grado di resistere alle bombe di maggior calibro e all’interno degli stessi si svilupparono fiamme e molte persone morirono soffocate dal fumo nei ripari. A quel punto le persone si riversarono fuori città fuggendo attraverso i campi, e a questo punto i cacciabombardieri italo-tedeschi scesero a mitragliare e a spezzonare uomini donne e bambini, oltre che l’ospedale e addirittura il bestiame. Ma l’attacco più massiccio non era ancora cominciato.
Le reazioni manifestatesi nel mondo furono così intense da far preoccupare lo stesso Franco e i suoi sostenitori, l’indignazione che ne scaturì fu pressoché totale al di fuori di Italia e Germania. Esterrefatti per le devastazioni subite da Guernica, i corrispondenti dei giornali esteri furono unanimi nel condannare il massacro, definendolo un «nefasto crimine». Il giorno successivo la notizia della distruzione di Guernica comparve sulla stampa britannica e il 28 aprile sul The New York Times e sul The Times, mentre il consigliere della difesa basco José Antonio Aguirre denunciò l’episodio con la frase «Aviatori tedeschi, al servizio dei ribelli spagnoli, hanno bombardato Guernica, bruciando la storica città venerata da tutti i baschi». Come successe successivamente al bombardamento di Durango, i franchisti fecero di tutto per smentire la notizia e dare la colpa ai comunisti, sostenendo che la città venne distrutta dai difensori prima di ritirarsi; il comando di Franco cercò di attribuire la colpa agli stessi baschi, e il 29 aprile comunicò che: «Guernica è stata distrutta dal fuoco e dalla benzina. Sono state le orde rosse al servizio del criminale Aguirre a bruciarla fino alle fondamenta. [...] Aguirre ha pronunciato l’infame menzogna di attribuire questa atrocità alla nostra nobile ed eroica aeronautica militare». La Chiesa spagnola approvò la versione dei franchisti e un professore spagnolo di teologia a Roma arrivò perfino a dichiarare che non era presente nemmeno un soldato tedesco in Spagna, e che Franco «aveva soltanto bisogno di soldati spagnoli»; una versione che perfino i più accesi sostenitori di Franco all’estero trovavano difficile da accettare.
L’incursione aerea su Guernica di fatto scompaginò la ritirata delle forze repubblicane ma non la rallentò in modo significativo. Nonostante ormai Guernica risultasse tagliata fuori dal resto della regione, in quel settore la ritirata venne effettuata in modo metodico con efficaci azioni di retroguardia. Il battaglione “Rosa Luxemburg” del maggiore Cristóbal riuscì a trattenere per diverso tempo i nazionalisti, nonostante la straordinaria incompetenza del loro comandante, colonnello Yatz, che sembrava non fosse in grado di interpretare una cartina topografica. Il 1º maggio la ritirata rallentò, l’8º Battaglione dell’UGT tese un’imboscata a Bermeo, sulla costa, alle “Frecce Nere”, mettendone in fuga 4 000 assieme ai loro carri L3. Per l’esercito basco tuttavia era giunto il momento di ritirarsi all’interno dell’«anello di ferro» di Bilbao, con un perimetro di circa 80 km che però al momento della ritirata risultava debole, incompleto e con una sola linea di trincee e difese che non consentiva una difesa in profondità. La situazione nei Paesi Baschi si fece molto difficile: il governo di Valencia tentò di aiutare i repubblicani circondati con rifornimenti aerei via Francia, ma il governo francese li bloccò in almeno due occasioni; le forze aeree basche erano ormai del tutto inesistenti e la morte dell’asso Felipe del Río abbatte ulteriormente il morale dei difensori i quali ora si trovarono in ulteriore difficoltà a causa della morte di Mola il 3 giugno. Questi venne sostituito da un più energico e intraprendente generale Dávila, che prese Bilbao il 17 giugno.
La prima e più importante rappresentazione del bombardamento venne dipinta dal famoso artista Pablo Picasso, che ispirandosi al dramma della cittadina basca dipinse il celeberrimo "Guernica" su commissione del governo repubblicano ed esposto in occasione dell'Esposizione internazionale di Parigi nel 1937. Molto si è scritto sul valore simbolico e allegorico dell'opera e sui suoi significati: l’autore non ha fornito una spiegazione univoca del proprio lavoro, che in realtà è polisemantico e quindi aperto a molteplici possibilità di lettura. Nel 1937 Christian Zervos, dedicò all’opera un numero dei Cahiers d’art, la prima monografia su Guernica, nella quale fornì una chiave per comprendere il dipinto, analizzato non solo come il resoconto di una battaglia cruenta e drammatica, ma come l’immagine della condizione umana.
Guernica è messaggio per la pace, la dignità e la libertà degli uomini e delle donne del mondo intero. Forse per questa ragione “Guernica” è diventato un simbolo per le vittime e gli oppositori di tutte le guerre successive, a partire dalla seconda guerra mondiale, si sono riconosciuti nell’opera e hanno fatto di “Guernica" un simbolo universale. Nel tentativo di delegittimare l’artista spagnolo, la propaganda nazista inserì “Guernica” di Picasso tra le opere esposte alla Mostra d'arte degenerata di Monaco nel luglio del 1937, alla cui inaugurazione Hitler dichiarò: «Faremo una spietata guerra epuratrice per ripulire gli ultimi settori corrotti della cultura: hanno avuto quattro anni per adeguarsi, ora saranno distrutti senza pietà». Il bombardamento di Guernica è stato inoltre ricordato in campo scultoreo grazie al lavoro di René Iché e letterario in un poema di Paul Éluard. wikipedia.org - Bombardamento_di_Guernica
Non il tempo delle nuvole e del sole e della pioggia e il passare delle stelle ornamento della notte, non il tempo delle primavere dentro il tempo delle primavere e il tempo degli autunni dentro il tempo degli autunni, non quello che mette foglie sui rami o quello che le strappa via, non quello che increspa e leviga e colora i fiori, ma il tempo dentro di me, il tempo che non si vede e ci impasta. Quello che ruota e ruota in cuore e lo fa ruotare con sé, e ci va cambiando dentro e fuori e pazientemente ci va riducendo come saremo l’ultimo giorno.”
Quella sera, quando Quimet l’aveva invitata a ballare, in piazza del Diamante c’era la musica e tutto il quartiere danzava. Natàlia prima esita, ma poi, visto che lui è affascinante e deciso, gli prende la mano. Inizia così la loro storia d’amore, a cui seguirà il matrimonio e la nascita dei figli.
Una mattina, Quimet trova un colombo ferito sul davanzale. Ha un’idea, vuole allevarli per rivenderli e inizia a riempire il solaio di uccelli. I bambini li amano, Natàlia li detesta.
Poi arriva la guerra che distrugge la città e spazza via le loro semplici vite. Natàlia rimane a Barcellona e lotta per sfamare la famiglia, Quimet parte per il fronte per combattere i fascisti e, uno a uno, i colombi volano via.
Con una toccante intensità, Rodoreda più che raccontare suggerisce con la sua voce delicata i sentimenti, la sensibilità, la complessità dell’animo femminile.
La piazza del Diamante è uno dei più bei romanzi su Barcellona e sulla guerra civile spagnola, una pietra miliare della letteratura europea del Novecento. lanuovafrontiera.it
Julieta era venuta in pasticceria apposta per dirmi che, prima della riffa per il mazzolino di fori, avrebbero sorteggiato le caffettiere, che lei aveva già visto: magnifche, bianche, con un’arancia dipinta, tagliata in due, che metteva in mostra i semi. Non avevo voglia di andare a ballare, e non avevo voglia nemmeno di uscire, perché avevo passato la giornata a vendere dolci, e le punte delle dita mi facevano male a via di stringere spaghini dorati e di fare nodi e cappi. E perché conoscevo Julieta: per lei la notte fniva all’alba, e dormire o non dormire le era indifferente. Ma ne avessi o no voglia, fnii con l’accompagnarla, perché ero fatta così, mi dispiaceva se qualcuno mi chiedeva una cosa e dovevo dire di no. Ero in bianco da capo a piedi: veste e sottoveste inamidate, scarpe come un sorso di latte, orecchini di pasta bianca, tre braccialetti a cerchio in stile con i pendenti, una borsetta bianca, di incerata, secondo Julieta, con la chiusura dorata a forma di conchiglietta.
exlibris20.it - La piazza del diamante La voce contenuta di Colometa affonda nell’angoscia, mai un grido, ma un dolore che preme su se stesso, che rimuove la notizia della morte del Quimet e la confonde con quella dell’ultimo colombo ed il tramonto ventoso di fine autunno. La ricerca di lavoro e cibo rivelano la misura esasperante del dolore alla piccola pasticciera d’un tempo: “E alla fine capii che cosa volevano dire quando dicevano che uno era di sughero… perché, di sughero lo ero io. Non perché lo fossi, ma perché lo diventai. E il cuore di neve”.
La fine della disperazione, progettata con un piano di morte, atroce quanto la distruzione della colombaia, rappresenta invece l’inversione della storia, quindi l’ultima parte del romanzo, e la risalita di Colometa alla vita. Un matrimonio affettuoso e la tranquillità dei giorni riportano la signora Natàlia alla comprensione finale di sé e alla capacità di riguardare indietro, senza paura di attraversare la strada. È la liberazione dell’urlo che si porta dentro da sempre, che esorbita dalle pagine del libro senza trionfo, ma sonoro e definitivo, lasciando il posto ad un unico sentimento: la tenerezza. Nancy De Benedetto
Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.
La Storia è un romanzo storico del 1974 scritto da Elsa Morante. Considerata come una delle sue opere più conosciute, ma allo stesso tempo anche criticate e discusse, l'autrice impiegò almeno tre anni per comporla e volle che fosse data alle stampe direttamente in edizione tascabile, in brossura e a basso costo. Il romanzo venne, perciò, pubblicato nel giugno del 1974 nella collana Gli Struzzi dalla casa editrice Einaudi.
Ambientato nella Roma della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra, negli anni fra il 1941 e il 1947, come romanzo corale è pretesto per un affresco sugli eventi bellici visti con gli occhi dei protagonisti e della popolazione ferita.
I quartieri romani martoriati dai bombardamenti e le borgate di periferia affollate da nuovi e vecchi poveri (San Lorenzo, Testaccio, Pietralata, il ghetto ebraico di Roma) e le alture dei vicini Castelli Romani, in cui si muovono le formazioni partigiane di opposizione al nazifascismo e alcuni dei protagonisti della vicenda che scandisce la narrazione come un naturale fil rouge, vengono descritti con realismo, ma anche con una marcata visionarietà poetica.
Il 19 luglio del 1943, in pieno giorno, Roma venne bombardata dall’aviazione anglo-americana. Fu una delle più grandi stragi della Seconda guerra mondiale in Italia: le bombe sganciate da centinaia di aerei da guerra fecero circa tremila morti, circa diecimila feriti, e rasero al suolo intere aree della città. Mussolini non era a Roma, si trovava a Feltre, dove aveva incontrato Hitler: gli Alleati erano sbarcati pochi giorni prima in Sicilia, e occorreva impostare un piano di difesa. Ma era troppo tardi. Una settimana dopo, il 24 luglio, Mussolini veniva sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo, e il 25 luglio veniva arrestato. Poco più di un mese dopo, l’8 settembre, l’Italia si arrendeva agli Alleati.
Elsa Morante descrive distesamente l’atmosfera dei giorni che precedono quello del bombardamento. Mentre le città industriali del nord vengono bombardate quasi ogni giorno, la vita nella capitale scorre abbastanza tranquilla. Il primogenito di Ida, Nino, che è un giovane sbruffone, ride delle paure della madre e minimizza il pericolo di attacchi aerei su Roma. L’autrice rende i suoi pensieri e le sue parole attraverso il discorso indiretto libero: «Questi allarmi di Roma, invece, erano tutte commedie: giacché era risaputo che, per un patto segreto di Ciurcìl col papa, Roma era decretata città santa e intangibile, e le bombe, qua, non ci potevano cascare». È Nino che parla, qui (sua è anche la storpiatura del nome del primo ministro britannico, Winston Churchill), ma ciò che dice corrisponde a ciò che molti romani pensavano e dicevano, nei primi mesi del 1943. Roma, la città santa della cristianità, non poteva essere bombardata. E invece…
La mattina del 19 luglio Ida e il piccolo Useppe vanno al mercato per fare un po’ di spesa. Ed ecco quello che succede.
Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne stampato a colori, senza cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata stinta, dei calzoncini rimediati di colore turchino, e due sandaletti di misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina Roma (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).
Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse: «Lioplani». E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti. «Useppe! Useppe!» urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: «Mà, sto qui», le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e del Capofabbricato2: che in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era cincominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pàttini, su un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.
Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi che era incolume3. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione. Si trovavano in fondo a una specie di angusta4 trincea, protetta nell’alto, come da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità, sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso, nel quale, fra scrosci, scoppiettii vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e sovrapensiero. «Non è niente», essa gli disse, «non aver paura. Non è niente». Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena appena tremare: «Niente…» diceva poi, fra persuaso e interrogativo. I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto5 a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile. letteredidattica.deascuola.it - Roma bombardata-
Antonio Besana, La Tregua di Natale del 1914 , La Libreria Militare, Milano, 2009. Prefazione: la nascita di una idea. Antonio Besana, Milano, Novembre 2009 I fatti conosciuti come "La tregua di Natale" (The Christmas Truce) ebbero inizio la vigilia di Natale del 1914, durante il primo anno della prima guerra mondiale. La notte di Natale 1914, nella parte settentrionale del fronte occidentale, nelle trincee delle Fiandre, a sud di Ypres, in Belgio, ci fu una tregua. Non fu ordinata a seguito di un accordo tra i comandi dei due schieramenti. Fu una tregua spontanea dichiarata dai soldati, francesi, inglesi e tedeschi, che sui due fronti uscirono allo scoperto e si incontrarono nella terra di nessuno. Si parlarono, si strinsero la mano, si abbracciarono, seppellirono i caduti delle due parti. Fu celebrata una messa, ci fu una funzione funebre. I soldati fumarono e cantarono insieme, si scambiarono auguri e doni, capi di vestiario e bottoni delle divise, cibo, tabacco, fotografie degli amici e delle famiglie, e ricordi del tempo di pace. Come è immaginabile, l’episodio mise in difficoltà gli Stati Maggiori di entrambe le parti, che in seguito decisero di sostituire le truppe al fronte con altre unità, le spostarono in altri settori, cancellando la memoria dei fatti. Testo dello scrittore australiano Aaron Sheperd, tratto da un suo adattamento teatrale per bambini.
"Janet, sorella cara,
sono le due del mattino e la maggior parte degli uomini dorme nelle buche, ma io non posso addormentarmi se prima non ti scrivo dei meravigliosi avvenimenti della vigilia di Natale. In verità, ciò che è avvenuto è quasi una fiaba, e se non l’avessi visto coi miei occhi non ci crederei. Prova a immaginare: mentre tu e la famiglia cantavate gli inni davanti al focolare a Londra, io ho fatto lo stesso con i soldati nemici qui nei campi di battaglia di Francia! Le prime battaglie hanno fatto tanti morti che entrambe le parti si sono trincerate in attesa dei rincalzi. Sicché per lo più siamo rimasti nelle trincee ad aspettare.
Ma che attesa tremenda! Ci aspettiamo ogni momento che un obice d’artiglieria ci cada addosso, ammazzando e mutilando uomini. E di giorno non osiamo alzare la testa fuori dalla terra per paura del cecchino. E poi la pioggia: cade quasi ogni giorno. Naturalmente si raccoglie proprio nelle trincee da cui dobbiamo aggottarla con pentole e padelle.
E con la pioggia è venuto il fango, profondo un piede e più. S’appiccica e sporca tutto e ci risucchia gli scarponi. Una recluta ha avuto i piedi bloccati nel fango, e poi anche le mani quando ha cercato di liberarsi. Con tutto questo, non potevamo fare a meno di provare curiosità per i soldati tedeschi di fronte noi. Dopo tutto affrontano gli stessi nostri pericoli, e anche loro sciaguattano nello stesso fango. E la loro trincea è solo cinquanta metri davanti a noi. Tra noi c’è la terra di nessuno, orlata da entrambe le parti di filo spinato, ma sono così vicini che ne sentiamo le voci. Ovviamente li odiamo quando uccidono i nostri compagni.
Ma altre volte scherziamo su di loro e sentiamo di avere qualcosa in comune. E ora risulta che loro hanno gli stessi sentimenti. Ieri mattina, la vigilia, abbiamo avuto la nostra prima gelata. Benché infreddoliti l’abbiamo salutata con gioia, perché almeno ha indurito il fango. Durante la giornata ci sono stati scambi di fucileria.
Ma quando la sera è scesa sulla vigilia, la sparatoria ha smesso interamente. Il nostro primo silenzio totale da mesi! Speravamo che promettesse una festa tranquilla ma non ci contavamo. Soldati che fraternizzano fuori dalle trincee. Di colpo un camerata mi scuote e mi grida: vieni a vedere! Vieni a vedere cosa fanno i tedeschi! Ho preso il fucile, sono andato alla trincea e, con cautela, ho alzato la testa sopra i sacchetti di sabbia. Non credevo ai miei occhi di vedere una cosa più strana e più commovente. Grappoli di piccole luci brillavano lungo tutta la linea tedesca, a destra e a sinistra, a perdita d’occhio. Che cos’è?, ho chiesto al compagno e John ha risposto: ’Alberi di Natale!’ Era vero. I tedeschi avevano disposto degli alberi di Natale di fronte alla loro trincea, illuminati con candele e lumini. E poi abbiamo sentito le loro voci che si levavano in una canzone: ’ stille nacht, heilige nacht [...]. Il canto in Inghilterra non lo conosciamo ma John invece lo conosce e l’ha tradotto: ’notte silente, notte santa’. comune.cinisello-balsamo.mi.it - LA TREGUA DI NATALE
Non ho mai sentito un canto più bello e più significativo in quella notte chiara e silenziosa. Quando il canto è finito gli uomini nella nostra trincea hanno applaudito. Sì, soldati inglesi che applaudivano i tedeschi! Poi uno di noi ha cominciato a cantare e ci siamo tutti uniti a lui: ’the first nowell the angel did say [...]’. Per la verità non eravamo bravi a cantare come i tedeschi con le loro belle armonie. Ma hanno risposto con applausi entusiasti e poi ne hanno attaccato un’altra: ’o tannenbaum, o tannenbaum [...]’. A cui noi abbiamo risposto: ’o come all ye faithful [...]’. E questa volta si sono uniti al nostro coro cantando la stessa canzone, ma in latino: ’adeste fideles [...]’. Inglesi e tedeschi che intonano in coro attraverso la terra di nessuno! Non potevo pensare niente di più stupefacente, ma quello che è avvenuto dopo lo è stato di più. ’Inglesi, uscite fuori!’, li abbiamo sentiti gridare, ’voi non spara, noi non spara!’.
Ispirato a fatti realmente accaduti nelle trincee dell'Artois durante la prima guerra mondiale. Alla vigilia di Natale del 1914 soldati francesi, scozzesi e prussiani interrompono le ostilità per qualche ora e brindano all'anno nuovo tutti insieme. Quella notte cambia la vita di 4 personaggi: un prete anglicano, un tenente francese, un grande tenore tedesco e la donna che ama, un soprano.
Nato e cresciuto da famiglia contadina di uno dei 10 dipartimenti territoriali francesi occupati dai tedeschi tra il 1914 e il 1918, Carion, dopo aver fatto una panoramica sulla vita in trincea - qualunque sia il fronte - fatta di polvere da sparo, sudore, fango, paura (e si era solo all'inizio), riesce a raccontare un fatto commovente romanzandolo ma evitando la trappola del buonismo banale e dando il suo contributo morale e pacifista.