«Subito bussarono alla porta, ed entrò un uomo che in quella casa K. non aveva mai visto prima...».
Un capolavoro della letteratura del Novecento: Il processo di
Franz Kafka, nella versione tradotta da Primo Levi Einaudi, Torino 1995 (prima edizione 1983). È un classico da
“leggere” – “rileggere”. Pubblicato postumo nel 1925, può essere inteso come emblema della condizione umana segnata dall’angoscia e dalla solitudine, oppressa da potenze misteriose e imperscrutabili: Joseph K., il protagonista, è processato e poi condannato per una colpa non commessa, ignota al «tribunale» stesso.
1. Senza passato e senza futuro
Nel Processo, scritto
in pochi mesi nel 1914, tutto è predisposto a dovere: c’è il dettaglio
di chi batte le mani dopo che Josef K., isolato fra tanti individui, ha
inavvertitamente alzato la voce, come se quel gesto facesse parte di un
copione. (p.48) In quella domenica misteriosa il signor K., accusato
senza saperne il motivo, entra come protagonista sotto i riflettori di
un “grande organismo” (come lo chiama Roberto Calasso in K., pubblicato
da Adelphi nel 2002), ovvero il tribunale a cui “appartiene tutto”. (p.
164) Non si parla di un sistema giudiziario, ma di un’intera società.
Semmai esistano degli eventi passati, Josef K. non sembra averne
coscienza, semmai ci sarà un futuro, non se lo chiede. L’incontro con lo
zio Karl – che vorrebbe “ben sapere come va a finire” (p. 104) mentre
Josef K. è immerso, quasi tranquillo, nel suo ruolo di accusato –
dimostra bene l’assenza, nel protagonista, di una preoccupazione per il
passato o per il futuro. Malgrado questo, nel marasma altamente
espressivo, assurdo delle immagini ridondanti, il Kafka visionario mette
in scena il sapore spaventoso di ciò che accadrà vent’anni dopo in
Europa, con l’ascesa dei totalitarismi e la perdita della volontà nell’individuo.
Nel
romanzo invece, per il protagonista Josef K. esiste un presente da
capire e sviscerare, senza causa e senza effetto, il processo, l’accusa.
Il processo è grottesco e mostra la mediocrità del popolo,
l’immediatezza del populismo, le parti politiche che battono le mani a
Josef K. oppure si mostrano serie e impassibili. Sembra il pubblico a
teatro; a tratti i personaggi che circondano K. sembrano marionette,
come il picchiatore (capitolo cinque), il sostituto (capitolo sei), l’avvocato, l’industriale o, sopra a tutti, il pittore,
personaggio simbolo, forse portavoce del “grande organismo”, che agisce
nel settimo capitolo: un capolavoro. Josef K. trascorre quindi momenti
di realtà rappresentata come sul palco. Anche se non volesse far parte
del sistema rappresentato, dovrebbe dirlo, farlo dall’interno dello
stesso.
A
tratti i dialoghi sono palesemente recitati dai personaggi. Josef K. fa
parte di questa prigione, desidera farne parte perché vuole capire, non
fugge mai, anzi fugge dalla libertà (si veda Fuga dalla libertà di
Eric Fromm, dove si spiega anche la fuga dell’uomo dalla libertà, sulla
rotta dei totalitarismi). C’è un’ironia gelida e spaventosa,
un’angoscia novecentesca che annega e si annida nel ridondante agire
degli uomini (consiglio caldamente la visione del film L’uomo senza passato di Aki Kaurismäki, 2002) . Kafka ne fa una tragedia, con un capro espiatorio.
Josef
K., sacrificatosi davanti alla società, è un individuo solo. La
corruzione sta alla base del sistema, il sistema stesso è corruzione.
Non
si lascerà mai convincere a corrompere chicchessia, a qualunque
artifizio essi ricorrano, fra i tanti di cui dispongono (p.60). […] Lo
tormentava il pensiero di non essere riuscito ad impedire la
bastonatura, ma non era colpa sua […] K. aveva anche visto benissimo i
suoi occhi (quelli del picchiatore) si erano illuminati al vedere la
banconota: era chiaro che aveva picchiato sul serio solo allo scopo di
alzare un pochino il prezzo della corruzione; e K. non avrebbe fatto
economia, gli stava veramente a cuore di mettere in libertà le guardie
(p.97)
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