Andrzej Szczypiorski
Notte, giorno e notte
Traduzione di Marco Binni
Fabula, 97
1996, pp. 281
isbn: 9788845912351
Temi: Letterature slave
In copertina:
Aleksandr Rodcenko (1891-1956),
Atleta (1938)
Museo Puškin, Mosca
Szczypiorski è un maestro della narrazione polifonica, come già sanno i lettori della Bella signora Seidenman. E in questo romanzo si direbbe che abbia spinto la sua arte all’estremo: parlano molte voci – un ebreo addetto ai crematori di Auschwitz, un ufficiale nazista, un funzionario della polizia politica, un burocrate del Partito, un militare dei Servizi speciali sovietici, un perseguitato del regime comunista, una donna «bella come la Polonia», oltre a una folla quasi anonima di «figli delle tenebre» –, voci che rievocano quello che hanno visto, compiuto e subìto nei decenni cruciali fra l’insorgere della pestilenza nazista e il crollo dei regimi staliniani, anni che si presentano tutti come altrettante varianti dell’orrore. E dal magistrale intreccio delle loro febbrili, tormentose deposizioni, che si smentiscono e al tempo stesso si confermano a vicenda, pare a tratti di scorgere – per lampi e squarci, come dal finestrino di un treno lanciato nella tenebra del continente – un paesaggio di macerie, e insieme il profilo del tempo, non ancora concluso, in cui «vi era solo la Storia, insaziabile e sinistra».
Notte, giorno e notte è stato pubblicato per la prima volta nel 1991.
Accanto a me stava il nostro ospite, quel ferroviere di buon cuore che dava asilo ai sopravvissuti di Varsavia. Un uomo già avanti con gli anni, a quei tempi sicuramente pensionato, visto che superava la settantina. Guardavo il suo viso magro, smunto. La vita non doveva essere stata tenera con lui, e anche i tedeschi dovevano averlo pestato più di una volta, perché era stata questa la sorte degli uomini della sua generazione. Stava fermo e guardava quell’onda nera che avanzava, il viso immobile come una maschera funebre. Poi girò gli occhi verso la stanza, osservò i tedeschi. Avevano già le guance rasate, si riassettarono le divise, si ravviarono i capelli, indossarono lentamente e con cura quei loro enormi cappotti di pelle, poi si infilarono i guanti, i berretti e gli occhiali. Infine uscirono sulla soglia. Uno di loro, probabilmente il più elevato in grado, rivolgendosi al ferroviere – e forse a noi tutti – disse qualche parola, sicuramente un augurio o un saluto.
Lentamente andarono fino alla loro motocicletta, una grossa Zündapp con il sidecar, l’ufficiale più elevato in grado prese posto nel sidecar, gli altri due sulla motocicletta, il motore si avviò, fu come l’esplosione di una granata nella fragile aria gelata, una nuvoletta di fumo nero uscì dal tubo di scappamento, le ruote slittarono sulla neve scivolosa, gli altri avanzavano in massa, sempre più vicini, sempre più vicini, già distinguevo le facce, scure e larghe come padelle vecchie, un’innumerevole moltitudine di facce, macchie sotto gli elmetti, l’enorme bosco si avvicinava, i tedeschi partirono tranquillamente verso occidente, per la strada che portava alla città, solo la scia di fumo si stendeva ancora bassa sulla neve tra gli alberi, e allora quel mio ferroviere, con il viso sempre immobile, lo sguardo fisso al nero bosco di russi, disse qualcosa sul nostro futuro. Non so ripetere le sue parole. Forse parlò di Dio. O forse del sapone da barba.
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