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domenica 11 ottobre 2020

Fuoco su di me è un film del 2006 diretto da Lamberto Lambertini, con Omar Sharif.

Fuoco su di me è un film del 2006 diretto da Lamberto Lambertini, con Omar Sharif.
Questo film è riconosciuto come d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale Cinema e audiovisivo del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo italiano, in base alla delibera ministeriale del 4 aprile 2001.
Napoli 1815, ultimi mesi del regno di Gioacchino Murat. Trionfi e tragico epilogo di quel re che seppe infiammare e trascinare il popolo napoletano nel sogno, forse prematuro, di un'Italia unita e indipendente. In quel tempo il giovane Eugenio, dopo anni di lontananza in Francia, torna a Napoli, sua città natale, a causa di una ferita riportata in battaglia, richiamato dall'amatissimo nonno, vecchio aristocratico alle prese con la stesura di un suo "Diario Napoletano".
Lo spiazzo davanti ad un castello. Il plotone schierato per la fucilazione. Gioacchino Murat, ex re di Napoli, ordina lui stesso il fuoco, incitando di mirare al petto. Fra i boschi il giovane Eugenio fugge inseguito dai soldati. Si apre e si chiude con queste scene il lavoro di Lambertini, in cui lo sfondo storico (1815) di una Napoli sempre fra comicità e dramma, oleografia e bellezza, serve alla storia di due caratteri, o meglio due possibili modi di essere uomini. Quello del Principe Nicola, alle prese con la stesura di un “Diario Napoletano” e quella del giovane Eugenio, soldato senza vocazione, alla ricerca di sé stesso. Un inatteso sbarco a Procida precipita il giovane nell’amore “assoluto” – romantico – per Graziella, irrealizzabile. Ma non rinuncia, nonostante le accuse di disfattismo del pragmatico cugino Aymon, all’idea di un proprio percorso interiore, rifiutando violenza, guerra, autoaffermazione esclusiva. Eugenio diventa così lo specchio del nonno Nicola. Quanto questi è incapace di agire conseguentemente agli ideali, tanto lui, nel finale “aperto” in cui si getta da un precipizio, compie la scelta della libertà interiore. Opera drammatica, la cui ricchezza di contenuto si condensa nei temi dell’amore, della libertà, della gentilezza, della famiglia, come vie di una ricerca di sé stessi, allora come ora. Ben girato negli interni, il film mantiene un andamento teatrale, con dialoghi letterari che ne rendono il ritmo talora lento, anche per l’insistenza su figure di contorno ( l’eremita, il burattinaio…), ma non distolgono dalla riflessione, il che è forse lo scopo vero del regista. Intense le interpretazioni, da quella commossa di Omar Sharif (Nicola), al volitivo Massimiliano Varrese (Eugenio) alla “mediterranea” Sonali Kulkarni (Graziella), favorite dall’indugiare sui primi e primissimi piani della mdp. Premiato alla 62a mostra del Cinema veneziano per “Cinema per la cultura del dialogo”. Mario Dal Bello
Regia Lamberto Lambertini
Sceneggiatura Lamberto Lambertini, Sergio Scapagnini
Fotografia Pino Sondelli
Montaggio Anna Napoli
Musiche Savio Riccardi
Scenografia Carlo De Marino, Luigia Battani
Costumi Annalisa Giacci
Edizioni musicali RaiTrade
Effetti speciali Guido Pappadà
Una produzione Sergio Scapagnini Per Indrapur Cinematografica
E Stella film
Fuoco Su Di Me. Quante Storie Per Un Film a cura di L. Lambertini

sabato 3 ottobre 2020

Ninfa plebea film del 1996 diretto da Lina Wertmüller, tratto dall'omonimo romanzo di Domenico Rea

Ninfa plebea è un film del 1996 diretto da Lina Wertmüller, tratto dall'omonimo romanzo di Domenico Rea, vincitore del Premio Strega 1993.
Riconoscimenti
« Ritornò a casa così stordita da sentire il bisogno di stendersi sul letto. La sua testa andava dalla rana al rano, dalla vacca al toro, e da sua madre a Di; pervenendo alla conclusione che era tutto così fra uomini e fra animali; che, forse, quella cosa era il motore della vita. »
(Domenico Rea, Ninfa plebea)
Ninfa plebea è un romanzo dello scrittore Domenico Rea pubblicato nell'ottobre del 1992 per i tipi della Leonardo Editore. L'opera si aggiudicò il Premio Strega nel 1993 e ispirò successivamente il film omonimo, uscito nel 1996 per la regia di Lina Wertmüller. Scritto a più di trent'anni di distanza dal primo (Una vampata di rossore), è il secondo ed ultimo romanzo dello scrittore campano.
La vicenda si snoda a Nofi, città immaginaria a trenta chilometri a sud di Napoli, a partire dalla seconda metà degli anni trenta fino al 1945.
Da quelle parti, in un basso che “per l'epoca si poteva considerare quasi rispettabile”, vive la giovane Miluzza con la sua famiglia: il padre Giacchino è un modesto sarto, la mamma Nunziata – dal temperamento focoso, vera guida della famiglia – aiuta il marito nell'attività, mentre il nonno Fafele è un apprezzato pizzaiolo.
L'ignoranza e la promiscuità del ménage familiare non risparmiano nulla alla giovane, a dispetto dei suoi tredici anni. “Cresciuta ed educata pressappoco come un pollo da cortile”, Miluzza è abituata ai lavori pesanti. Insieme ad Annuzza, l'amica del cuore con cui stringe un ambiguo sodalizio, esplora le prime meraviglie del sesso. La sua bellezza impubere richiama le attenzioni della cantiniera Moschella, del negoziante don Procolo e finanche del parroco don Aspreno, cui Miluzza è periodicamente comandata a rinfrescare le piaghe causate dall'obesità.
D'altra parte, in tutta Nofi è ben nota l'irrefrenabile sessualità della madre Nunziata che non esita a intrattenersi con i soldati dietro il paravento della sala prove. Il pregiudizio dei compaesani e le naturali pulsioni dell'adolescenza sembrano quindi predestinare Miluzza a un amaro futuro di servilismo e prostituzione. Solo il debole padre Giacchino vorrebbe proteggerla, evitarle una tragica presa di coscienza, arrivando a rimproverare Nunziata di “sbrigarsi” negli istanti in cui la scellerata consuma le sue sfrenate passioni al riparo della tenda.....
La guerra piomba nella storia in tutta la sua crudezza: è il 21 giugno 1943, Nofi viene bombardata a più riprese e gli abitanti riparano in una vecchia tufara abbandonata.
Miluzza rifiuta di recarsi al ricovero, barricandosi in casa. È così che dà ricetto a Pietro, un giovane soldato ferito e in fuga verso Corbara, il suo paese di origine. Dapprima lo cura, quindi lo assiste nel suo ritorno a casa, guidandolo tra i monti di Nofi. Il viaggio, il pericolo e la straordinarietà degli eventi segnano l'animo dei due giovani battezzando una serena e sincera unione. La famiglia di Pietro accoglie Miluzza a braccia aperte.
La semplicità della vita di campagna e la schiettezza dei nuovi sentimenti la affrancano dal suo angoscioso passato. A guerra finita i due si sposano, nel segno di un miracoloso e catartico ritorno ad un'originaria purezza. https://it.wikipedia.org

mercoledì 23 settembre 2020

Giordano Bruno - Il candelaio

Giordano Bruno - Il candelaio
Editore: Einaudi
Edizione: 5
Anno edizione: 1981
In commercio dal: 1 gennaio 1997
Pagine: 195 p.
EAN: 9788806064457
Commedia in cinque atti scritta probabilmente a Parigi nel 1582. La commedia, nella sua storia iniziale e nell'apparato di cui si circonda, pare un episodio della guerra condotta dal Bruno contro l'accademismo, il conformismo e la pedanteria. La trama si annoda su tre motivi: "sono tre materie principali, spiega l'autore, intessute insieme... l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo et la pedanteria di Manfurio; però per la cognizion distinta de' soggetti, ragion dell'ordine et evidenza dell'artificiosa stesura, rapportiamo prima da per lui l'insipido amante, secondo il sordido avaro, terzo il goffo pedante".
«Con questa filosofia l'animo mi s'aggrandisse, e me si magnifica l'intelletto. Però, qualunque sii il punto di questa sera ch'aspetto, si la mutazione è vera, io che son ne la notte, aspetto il giorno, e quei che son nel giorno, aspettano la notte; tutto quel ch’è, o è qua o là, o vicino o lungi, o adesso o poi, o presto o tardi. Godete, dunque, e, si possete, state sana, ed amate chi v’ama.»
(Candelaio 1994, p. 7, dedica)
In quegli anni il filosofo soggiornava nella città di Parigi sotto la protezione di Enrico III di Francia, occupando un posto di prestigio nel collegio accademico reale.
Alla complessità del linguaggio, un italiano popolaresco e colorito che inserisce termini in latino, toscano e napoletano, un linguaggio denso di metafore, allusioni oscene, sottintesi, citazioni e storpiature linguistiche, corrisponde una trama eccentrica e complessa, fondata su tre storie principali, quelle di Bonifacio, Bartolomeo e Manfurio. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la signora Vittoria ricorrendo a pratiche magiche; l'avido alchimista Bartolomeo si ostina a voler trasformare i metalli in oro; il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile. In queste tre storie si inserisce quella del pittore Gioan Bernardo, voce dell'autore stesso che con una corte di servi e malfattori si fa beffe di tutti e conquista Carubina.
Nella commedia, dove Bruno definisce se stesso un «accademico di nulla accademia», è mostrato un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua e vivace.
La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, di cui abbiamo, come rileva Pasquale Sabbatino, il ritratto cartografico disegnato da Du Pérac e stampato da Antoine Lafréry a Roma nel 1566 e la descrizione di Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli, apparsa a Napoli, nello stesso anno, presso Scotto. Le scene si svolgono presso il seggio del Nilo, uno dei distretti amministrativi del tempo, situato presso il decumano inferiore e vicinissimo alla piazza San Domenico Maggiore, dove Giordano Bruno seguì il suo percorso ecclesiastico.
Bonifacio, marito di Carubina, confida a Bartolomeo di essere innamorato della signora Vittoria, in realtà una prostituta, che vorrebbe conquistare senza dover ricorrere al denaro. Bartolomeo, un alchimista, gli confida a sua volta di avere anche lui un sogno: trasformare in oro e argento i metalli. Il pedante Manfurio, cui Bonifacio commissiona la scrittura di un'epistola amorosa, si esprime con frasi fatte e citazioni latine parlando a sproposito e mostrando di non comprendere quello che gli succede intorno. Sprezzante e sarcastico il rimprovero di Sanguino, servo di Bartolomeo, nelle cui parole riecheggia tutto il dispregio di Bruno per il mondo accademico dell'epoca:
«Mastro, con questo diavolo di parlare per grammuffo o catacumbaro o delegante e latrinesco, amorbate il cielo, e tutt'il mondo vi burla.»
(Sanguino: atto I, scena V)
Bonifacio, sempre per lo stesso fine, commissiona all'artista Gioan Bernardo un ritratto che lo «faccia bello»; Gioan Bernardo promette ma nello stesso tempo lo prende in giro: «da candelaio volete diventar orefice»[5], con allusione oscena al cambiamento di gusti sessuali, ma Bonifacio non intende. Non contento e sempre innamorato, Bonifacio ricorre anche a Scaramuré, un mago.
Onore non è altro che una stima, una riputazione; però sta sempre intatto l'onore, quando la stima e riputazione persevera la medesima. Onore è la buona opinione che altri abbiano di noi: mentre persevera questa, persevera l'onore. E non è quel che noi siamo e quel [che] noi facciamo, che ne rendi onorati o disonorati, ma sì ben quel che altri stimano, e pensano di noi. (Gioan Bernardo: atto V)
Cosa è questo primo lavoro? Una commedia, il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli, la materia è il mondo plebeo e volgare, il concetto è l'eterna lotta degli sciocchi e de' furbi, lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società, la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all'Aretino, salvo che gli altri vi si spassano, massime l'Aretino, ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi accademico di nulla accademia, detto il Fastidito. Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel fastidito ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira più collera; ne ha fastidio, si sente fuori e sopra di essa. (Francesco De Sanctis)
https://it.wikipedia.org/wiki/Candelaio

lunedì 21 settembre 2020

L'amore molesto, un film del 1995 diretto da Mario Martone, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante.

L'amore molesto è un film del 1995 diretto da Mario Martone, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante.
È stato presentato in concorso al 48º Festival di Cannes
Delia, un'illustratrice napoletana trapiantata da lunghi anni a Bologna, viene richiamata a Napoli dalla morte improvvisa della madre Amalia, suicidatasi per annegamento. La donna non presta credito alla tesi ufficiale del suicidio, convinta che l'esuberanza, la vivacità e la positività esistenziale della madre non avrebbero permesso il gesto estremo: inizia pertanto a indagare sul passato recente della madre, sospinta anche da alcune inquietanti telefonate anonime.
I fatti e la ricostruzione frammentaria degli ultimi giorni di vita della madre portano improvvisamente alla luce avvenimenti remoti, che Delia aveva occultato e sepolto nella propria memoria, e la costringono a riconsiderare una realtà personale diversa da quella che aveva inconsciamente costruito. Delia deve ricordare e rivivere il momento in cui, condizionata dall'atteggiamento paterno violento e opprimente, rompe i rapporti con la madre, accusata dal coniuge di una relazione clandestina con il vicino di casa Nicola, soprannominato Caserta.
Infine, Delia riporta alla mente ciò che fu la causa di tutto: da bambina, Delia subì atti di pedofilia da parte del padre di Caserta, ma non denunciò l'accaduto e raccontò a suo padre che sua madre e Caserta, in realtà niente più che amici, erano amanti (ciò anche a causa di una sorta di gelosia nei confronti della madre stessa); suo padre, molto geloso della moglie la cui bellezza incantava molti uomini, prese a picchiare lei e, insieme al cognato, anche Caserta e il figlio di quest'ultimo, Antonio. Caserta, come per "vendicarsi" del padre di Delia, cominciò ad inviare ad Amalia regali di ogni tipo, scatenando ogni volta la furia di suo marito, che puntualmente la malmenava. Poco tempo prima di suicidarsi, Amalia riprese i rapporti con Caserta, insieme al quale una sera andò a passeggiare in spiaggia, e durante la quale ella si allontanò da Caserta, nel frattempo addormentatosi, lasciandosi annegare.
Premi e riconoscimenti
Nomination Miglior film
Nomination Miglior produttore a Angelo Curti, Andrea Occhipinti e Kermit Smith
L'amore molesto, pubblicato nel 1992, è un thriller psicologico a sfondo drammatico, basato sul rapporto madre-figlia. È il primo libro scritto da Elena Ferrante
Il romanzo rappresenta un’analisi introspettiva di Delia, personaggio principale che, durante la ricerca della verità riguardo alla morte inaspettata di sua madre, riscopre angoli nascosti della sua personalità e particolari rimossi della sua vita. La vicenda è interamente narrata in prima persona dalla protagonista, costretta a tornare nei luoghi della sua infanzia e a scontrarsi nuovamente con una realtà in precedenza rimossa con forza e determinazione.
L’incipit del romanzo spiega che il corpo della madre di Delia, Amalia, viene ritrovato in mare a seguito di quello che sembrerebbe un suicidio tramite annegamento. Delia non crede alla versione ufficiale dei fatti, pertanto cerca di ricostruire passo per passo la vita di sua madre, in modo da capire con quali persone avesse avuto a che fare nei suoi ultimi anni e se qualcuna tra esse possa considerarsi responsabile della sua morte.
Presto Delia decide di dedicarsi all'analisi delle figure maschili presenti nella vita di Amalia: il fratello (e zio di Delia) Filippo, un uomo ormai anziano e debole, dal carattere espansivo e estroverso; il marito (e padre di Delia) da cui Amalia era scappata più di vent’anni prima, uomo ottuso, violento ed estremamente geloso; infine Nicola Polledro, detto Caserta, l’affascinante anziano che, nell’ultimo periodo, la vedova De Riso (una vicina di casa) era solita vedere entrare e uscire dall’abitazione di Amalia.
Premi e riconoscimenti
1992: il romanzo viene selezionato al Premio Strega.
“Il mare non può essere azzurro se il cielo è rossofuoco.” “Mi sentivo invece come se mi fossi lasciata in un posto e non fossi più in grado di ritrovarmi: affannata, cioè, coi movimenti troppo veloci e scarsamente coordinati, la fretta di chi fruga dappertutto e non ha tempo da perdere.”



venerdì 18 settembre 2020

Scusa ma ti chiamo amore - Federico Moccia

Scusa ma ti chiamo amore è un film del 2008 diretto da Federico Moccia e tra gli altri interpretato da Raoul Bova e Michela Quattrociocche. Adattamento cinematografico dell'omonimo romanzo sempre edito dal regista.
Il film è stato distribuito nel circuito cinematografico italiano il 25 gennaio 2008.
Niki e le sue amiche hanno diciassette anni e sono all’ultimo anno di scuola. Malgrado abbiano la maturità ne combinano ogni giorno di tutti i colori. Sfilate, feste, rave e tutti i possibili eventi anche fuori Roma. Alex è un “ragazzo” di quasi trentasette anni. Si è lasciato da poco e senza un vero perché con la sua fidanzata storica. 
Intorno a lui ruota un mondo complicato e divertente: i suoi genitori, le sue sorelle sposate e con figli e poi i suoi tre amici Enrico, Flavio e Pietro, anche loro tutti già sposati ma ognuno con le proprie particolarità. Alex è un pubblicitario e ha delle grandi responsabilità all’interno della sua azienda. Ma è appena arrivato un giovane rampante che mette a repentaglio il suo lavoro. E tutto questo non sarebbe niente se quella mattina Alex non incontrasse Niki. O meglio, se i due non si scontrassero....
Scusa ma ti chiamo amore è un romanzo di Federico Moccia, pubblicato il 17 aprile 2007 dalla casa editrice Rizzoli.
Alex, un pubblicitario di 37 anni, attraversa un momento di riflessione a causa della fine della relazione con Elena mentre Niki, studentessa diciassettenne, ha lasciato il suo ragazzo Fabio. A Roma, Niki e Alex hanno un incidente stradale, fortunatamente senza conseguenze. Niki si trova in difficoltà, visto che non può guidare il suo motorino danneggiato e si fa accompagnare a scuola dal suo investitore il quale accetta volentieri. Dopo quell'incidente Alex entra nel mondo di Niki e visto che non ha idee per la sua nuova campagna pubblicitaria, decide di far fare il suo lavoro a Niki. A causa di questo, i due si incontrano e passano del tempo insieme; il rapporto tra loro cresce giorno dopo giorno e tra i due nasce una tenera storia. La campagna pubblicitaria ha successo e Alex può tirare un sospiro di sollievo. Ad ostacolare però la storia dei due c'è la differenza d'età: Niki non sa come poter raccontare alle amiche, le O.N.D.E. (Olly, Niki, Diletta, Erica), la sua storia amorosa con un uomo di vent'anni più grande, e non sa come presentarlo ai suoi genitori. Niki non sa proprio come "definire" Alex: alla fine, per ovviare al problema, pronuncia la frase "Scusa, ma ti chiamo amore", frase emblematica del film. Un altro ostacolo si introduce fra la storia dei due innamorati: la ex fidanzata di Alex, Elena, torna in scena dopo averlo lasciato. Quest'ultimo lascerà Niki, facendo finta che ciò sia dovuto ai problemi per la differenza di età. La ragazza rimarrà sola e con il cuore spezzato e capirà le vere ragioni della loro rottura solo dopo aver visto Alex ed Elena tenersi per mano in un bar. 
A gennaio 2008 viene pubblicato il CD contenente le tracce della colonna sonora del film.
Tracce
  1. Scusa ma ti chiamo amore (Sugarfree)
  2. Quello che mi davi tu (Zero Assoluto)
  3. Seduto qua (Zero Assoluto)
  4. She's the One (Robbie Williams)
  5. La tua ragazza sempre (Irene Grandi)
  6. Quanti anni hai (Vasco Rossi)
  7. Semplicemente (Zero Assoluto)
  8. Tomorrow never (Villeneuve)
  9. Danziamo (Io, Carlo)
  10. La prima notte d'amore (Claudio Guidetti)
  11. Una gita al mare (Claudio Guidetti)
  12. Alex e Niki (Claudio Guidetti)
  13. Un giro per Roma (Claudio Guidetti)
  14. Il faro (Claudio Guidetti)
  15. Prima di Niki (Claudio Guidetti)
  16. Il tema per Diletta (Claudio Guidetti)
  17. Niki e Alex (Claudio Guidetti)

lunedì 7 settembre 2020

Nati due volte Giuseppe Pontiggia

Che cosa succede in una famiglia quando nasce un figlio handicappato, come si evolvono le paure, le speranze, l'angoscia, le normali esperienze di tutti i giorni. Come reagiscono i familiari, gli amici, i medici, "la gente", e il padre, la madre, il fratello. I bambini disabili, come suggerisce il titolo, nascono due volte: la prima li vede impreparati al mondo, la seconda è una rinascita affidata all'amore e alla intelligenza degli altri. Coloro che nascono con un handicap devono conquistarsi giorno per giorno, più degli altri il proprio diritto alla felicità. Il libro è un romanzo coraggioso e anticonformista che alterna a pagine tese, drammatiche e commoventi altre eccentriche o decisamente comiche.
Vincitore premio Campiello 2001
Nati due volte Giuseppe Pontiggia
Editore: Mondadori
Collana: Oscar moderni
Edizione: 3
Anno edizione: 2016
Formato: Tascabile
In commercio dal: 10 ottobre 2016
Pagine: XV-224 p., Brossura
EAN: 9788804672456
«Ai disabili che lottano non per diventare normali ma se stessi»
Le chiavi di casa è un film del 2004 diretto da Gianni Amelio, liberamente tratto dal libro autobiografico Nati due volte di Giuseppe Pontiggia.
Riconoscimenti
L’ultimo libro di Giuseppe Pontiggia, scrittore comasco scomparso nel 2003, tocca il tema della disabilità con il senso di realtà di una persona direttamente coinvolta (per via dell’handicap del figlio) e con l’acutezza di un raffinato scrittore: si tratta di Nati due volte, uscito nel 2000 per Mondadori.
Che l’autore affronti un argomento difficile e di importanza capitale per la propria vita lo si intuisce subito dall’amarezza di chi racconta di fronte al camminare barcollante di suo figlio: «Sono stremato e infelice. […] Lui procede ondeggiando come un marinaio ubriaco. No, come uno spastico». Trattandosi della seconda pagina del libro, il lettore percepisce, si potrebbe dire, una certa brutalità in queste parole del padre-narratore, alle quali seguono quelle del figlio: «Se ti vergogni, puoi camminare a distanza. Non preoccuparti per me»*.
Ma l’effetto straniante di queste battute non è frutto di insensibilità, quanto della volontà di capire e far capire. Nati due volte è la storia del cammino di un padre e di un figlio disabile verso la reciproca conoscenza. Capire la differenza senza contemporaneamente dare giudizi di valore, confrontarsi con il disagio dei “normali”, anche dei familiari, verso i “diversi”: è ciò che il professor Frigerio e suo figlio Paolo scoprono passo dopo passo, fra molte cadute. Le virgolette qui sono d’obbligo, ma l’autore si scaglia più volte nel corso del romanzo contro l’uso del linguaggio politicamente corretto (“diversamente abile”, “difficoltà deambulatoria” e via dicendo), che articola non il rispetto verso la disabilità ma una sorta di ghettizzazione, umana e linguistica. Comprendere la disabilità significa anche non girarci intorno con perifrasi burocratiche, ma penetrarne le difficoltà con parole nette e precise.
Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. […] Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita. Questa almeno è la mia esperienza. Non posso dirvi altro. Adriano Cecconi


venerdì 28 agosto 2020

Medico senza frontiere. Ritratto di Carlo Urbani - Lucia Bellaspiga

MEDICO SENZA FRONTIERE<br>Ritratto di Carlo Urbani
Il 29 marzo 2003, all'ospedale di Bangkok, mori­va di SARS Carlo Urbani, il medico italiano che per primo aveva individuato sul campo il virus letale. Un anno dopo Lucia Bellaspiga raccontò, in un libro dal sapore del reportage giornalistico, le opere e i giorni dell'uomo, del medico, del cre­dente: l'impegno e il sorriso, i successi e le pro­ve, i sogni e le delusioni. A dieci anni dalla morte questa nuova edizione - ampliata con materiali inediti - consente di cogliere più chiaramente il dono fatto a tutti noi da Urbani, un medico che ha saputo andare al di là di tutte le frontiere, per donare interamente se stesso. «Se i libri di storia del futuro hanno pagine ancora bianche da ess­re riempite, dovranno parlare del medico Carlo Urbani» (Enzo Biagi).https://www.mondadoristore.it/
Medico senza frontiere. Ritratto di Carlo Urbani
pubblicato da Ancora 
CollanaProfili
Formato Brossura 
Pubblicato 08/03/2013
Pagine 192
Lingua Italiano
Isbn o codice id 9788851410995
Carlo Urbani, morto all’ospedale di Bangkok a 47 anni nel 2003, «scoprì» la Sars
il gesto di coraggio compiuto nel 2003 da Carlo Urbani, nel pieno dell’epidemia della Sars. Il medico marchigiano, infatti, è stato il primo a individuare sul campo la Sindrome respiratoria acuta severa, ma quella scoperta gli è costata la vita. Al momento della sua morte, Urbani operava in Asia da qualche anno, come esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità per l’area del Pacifico occidentale, dopo aver rifiutato un posto da primario all’ospedale di Macerata. Il 28 febbraio 2003 all’ospedale di Hanoi visita un paziente che non si riesce a curare e che sta infettando il personale sanitario. Intuita la gravità della malattia, molto contagiosa, Urbani allerta l’Oms, ma non riesce a portare in salvo se stesso. Muore all’ospedale di Bangkok, all’età di 47 anni. Il suo caso suscita un moto di ammirazione e cordoglio internazionale. https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/contagiati-donando-s-stessi-lesempio-dei-martiri-in-corsia 
CARLO URBANI, IL MEDICO CHE SCOPRÌ LA SARS
Il 29 marzo 2003, all’ospedale di Bangkok, moriva a causa della SARS Carlo Urbani, il medico italiano che per primo aveva individuato sul campo il virus letale.
Quella causata dal coronavirus non è la prima emergenza sanitaria globale che il mondo si trova a dover affrontare. Già nel 2003 proprio una forma di coronavirus fu responsabile dell’epidemia di SARS che causò oltre 8000 contagi e 775 morti nel mondo. In quell’occasione la pandemia fu scongiurata grazie al sacrificio del medico italiano Carlo Urbani, in Estremo Oriente per l’Oms.
Nei momenti di grave crisi sanitaria riponiamo le nostre speranze e aspettative nell’efficienza delle grandi organizzazioni come l’OMS o di quelle più piccole come gli ospedali e i presidi sanitari. Non sono però le organizzazioni che cambiano il nostro destino o che fanno la differenza, ma sono le persone che ci lavorano dentro, in particolare quelle si fanno carico di cambiare il corso degli eventi perché credono fino in fondo nell’importanza del loro lavoro.
Carlo Urbani era una di queste persone.

sabato 22 agosto 2020

"I giorni dell'abbandono" di Elena Ferrante

I giorni dell'abbandono - Film (2005) - MYmovies.it
I giorni dell'abbandono è un film del 2005 di Roberto Faenza, ambientato a Torino, tratto dall'omonimo romanzo di Elena Ferrante.
Olga, moglie e madre di due figli, viene abbandonata all'improvviso dal marito per una donna più giovane. Per lei inizia un periodo doloroso che la fa sprofondare nella disperazione, che la porta a non mangiare più e nemmeno a dormire. Ma l'incontro con un musicista solitario che vive nel suo stesso palazzo smuove qualcosa. Dopo una discesa all'inferno si può solo risalire. Olga vive un percorso interiore che la porta a capire che non stava impazzendo per l'amore perso, ma ha scoperto cosa significa perdere la dignità e l'essere imprigionata in un ruolo, ruolo di cui ti devi liberare per gustarti a pieno la vita.
Questo film è riconosciuto come d'interesse culturale nazionale dalla Direzione generale per il cinema del Ministero per i Beni e le Attività Culturali italiano, in base alla delibera ministeriale del 28 febbraio 2005.
Nomination Migliore canzone originale (I giorni dell'abbandono) di Goran Bregović
Miglior attrice in un film drammatico a Margherita Buy
Nomination Miglior regista di un film drammatico a Roberto Faenza
I giorni dell'abbandono - Elena Ferrante
«La voce rabbiosa, torrenziale di questa autrice è qualcosa di raro».
(The New York Times)
«Ho letto questo romanzo in un giorno, obbligandomi a prendere respiro come fa un nuotatore. I giorni dell’abbandono è stellare».
(Alice Sebold, autrice di Amabili resti) https://www.edizionieo.it/
Donne spezzate, donne rimesse assieme: 
"I giorni dell'abbandono" di Elena Ferrante
Autore: Carolina Pernigo
Testata: Critica Letteraria
Data: 24 ottobre 2018
È passato ormai diverso tempo, ma ce lo ricordiamo bene, I giorni dell’abbandono di Elena Ferrante, anche se precede di molto il successo de L’amica geniale. Pubblicato nel 2002, dopo dieci anni di silenzio rispetto all’esordio letterario con L’amore molesto, questo romanzo durissimo è stato finalista al premio Viareggio, e Roberto Faenza ne ha tratto un film con Margherita Buy nei panni di Olga, Luca Zingaretti in quelli di Mario, e Goran Bregović nei panni del vicino musicista (non più Aldo, ma Daniel). Come sempre, però, il lungometraggio non è all’altezza della parola scritta, che si incide – profondamente, impietosamente – nell’anima del lettore – o ancor più della lettrice, che si sente chiamata in causa, sfiorata in punti nevralgici e dolenti di cui ignorava la sensibilità.
Avvalendosi di una struttura circolare facilmente individuabile, il testo si apre con l’irruzione di una dichiarazione d’abbandono nello scenario di un’apparente serenità familiare: una coppia sposata da quindici anni e con due figli, che conduce un’esistenza ordinaria, in cui il sentimento prevalente è la quiete, che viene ripetutamente citata fin dalle prime pagine.
Ad esempio la protagonista, Olga, ci dice che suo marito “era un uomo di sentimenti quieti” (p. 7), legato ai riti familiari; che avevano affrontato una precedente crisi discutendo, “ma quietamente” (p. 10), parlando “con calma e a bassa voce” (p. 11). A questo si aggiunge il fatto che Olga, di origini napoletane, fin dall’adolescenza desidera prendere le distanze dagli atteggiamenti sguaiati e rumorosi della sua famiglia d’origine, e si impone dunque una rigorosa autodisciplina, che la porta “a non avere mai fretta, a non correre” (p. 10), ma soprattutto ad “aspettare con pazienza che ogni emozione implodesse e prendesse la via della voce pacata, custodita in gola per non dare spettacolo di [sé]” (p. 11). Questo stato di pacatezza dominante viene squarciato bruscamente dall’inaspettata e improvvisa dichiarazione del marito, che in un pomeriggio qualunque di aprile annuncia dopo pranzo, con assoluta nonchalance, di voler lasciare la moglie. La quiete perduta verrà recuperata da Olga soltanto alla fine del romanzo, grazie a un incontro, imprevisto eppure intimamente atteso, che riporterà la situazione a uno stato di quiete assimilabile a quello iniziale. Nel mezzo, si assiste a un duplice movimento: una spirale discendente e autodistruttiva in cui, un po’ alla volta, sprofonda suo malgrado la protagonista fino a toccare i punti più bassi e degradati del proprio animo; e, successivamente, una spirale ascendente che si conclude con il ritorno alla normalità.

martedì 11 agosto 2020

Tre fratelli film del 1981 diretto da Francesco Rosi.

"IL TERZO FIGLIO" - UN RACCONTO DI ANDREJ PLATONOV
da questo racconto il regista Francesco Rosi trasse liberamente il film "Tre Fratelli" nel 1981
In una piccola città di provincia, il vecchiosua moglie muore e dà i telegrammi ai figli dell'Unione Sovietica (ce ne sono solo sei) per venire, aiutare con i funerali e salutare sua madre.
Innanzitutto, il figlio maggiore arriva sulla scena degli eventi,poi per lui e per tutti gli altri in breve tempo. Con il bambino arriva solo il terzo figlio - porta con sé una piccola figlia. Con grande abilità, ha descritto nella storia tutto ciò che riguarda la morte di sua madre, i Platonov. "Il terzo figlio" (il riassunto lo trasmette solo in parte) - in questo senso un lavoro un po 'inquietante.
Tre fratelli | Francesco Rosi (1981) – BY LORENZO CIOFANI
Tre fratelli è un film del 1981 diretto da Francesco Rosi.
Sceneggiato da Rosi e Tonino Guerra, è stato liberamente tratto dal racconto Il terzo figlio di Platonov. Ha ricevuto 5 David di Donatello e la nomination all'Oscar ed è stato presentato fuori concorso al 34º Festival di Cannes.
È la storia di tre fratelli originari del sud, divisi dalla differente età e da percorsi di vita molto diversi, che si ritrovano dopo molti anni al paese natio in occasione della morte della madre. Ognuno fa i conti con il proprio passato e si confronta-scontra con i fratelli e il padre, facendo un bilancio della propria vita. Sullo sfondo il malessere della cupa Italia dell'inizio degli anni ottanta, tra lotte operaie contro la restaurazione, disagio sociale e ultimi colpi di coda del terrorismo, che Rosi analizza attraverso lo scontro generazionale-familiare.
Il film è girato ed ambientato ad Altamura, Cassano delle Murge, Gravina in Puglia e in altre località della Murgia.
Alcune riprese sono state girate a Matera e sulla spiaggia di Nova Siri.
Riconoscimenti
Nomination Miglior film straniero (Italia)
C’è un momento di questo film che sospende i pensieri, che vale l’incanto raro di una emozione, che scuote le paure che abbiamo lasciato indietro nel tempo. È il racconto di un sogno. Che ha però una fisicità terribile, che rimanda alla memoria immagini spietate che abbiamo incontrato, lungo il cammino della nostra storia recente. È l’immagine di una morte, di un assassinio, di una vita spezzata. Quella di un magistrato che proietta nel sonno le sue paure, quelle di un uomo di giustizia della fine degli anni Settanta, impegnato contro il terrorismo. Walter Veltroni https://www.mymovies.it/

sabato 8 agosto 2020

Andrzej Szczypiorski - Notte, giorno e notte

Andrzej Szczypiorski
Notte, giorno e notte
Traduzione di Marco Binni
Fabula, 97
1996, pp. 281
isbn: 9788845912351
In copertina:
Aleksandr Rodcenko (1891-1956),
Atleta (1938)
Museo Puškin, Mosca
Szczypiorski è un maestro della narrazione polifonica, come già sanno i lettori della Bella signora Seidenman. E in questo romanzo si direbbe che abbia spinto la sua arte all’estremo: parlano molte voci – un ebreo addetto ai crematori di Auschwitz, un ufficiale nazista, un funzionario della polizia politica, un burocrate del Partito, un militare dei Servizi speciali sovietici, un perseguitato del regime comunista, una donna «bella come la Polonia», oltre a una folla quasi anonima di «figli delle tenebre» –, voci che rievocano quello che hanno visto, compiuto e subìto nei decenni cruciali fra l’insorgere della pestilenza nazista e il crollo dei regimi staliniani, anni che si presentano tutti come altrettante varianti dell’orrore. E dal magistrale intreccio delle loro febbrili, tormentose deposizioni, che si smentiscono e al tempo stesso si confermano a vicenda, pare a tratti di scorgere – per lampi e squarci, come dal finestrino di un treno lanciato nella tenebra del continente – un paesaggio di macerie, e insieme il profilo del tempo, non ancora concluso, in cui «vi era solo la Storia, insaziabile e sinistra».
Notte, giorno e notte è stato pubblicato per la prima volta nel 1991.
Accanto a me stava il nostro ospite, quel ferroviere di buon cuore che dava asilo ai sopravvissuti di Varsavia. Un uomo già avanti con gli anni, a quei tempi sicuramente pensionato, visto che superava la settantina. Guardavo il suo viso magro, smunto. La vita non doveva essere stata tenera con lui, e anche i tedeschi dovevano averlo pestato più di una volta, perché era stata questa la sorte degli uomini della sua generazione. Stava fermo e guardava quell’onda nera che avanzava, il viso immobile come una maschera funebre. Poi girò gli occhi verso la stanza, osservò i tedeschi. Avevano già le guance rasate, si riassettarono le divise, si ravviarono i capelli, indossarono lentamente e con cura quei loro enormi cappotti di pelle, poi si infilarono i guanti, i berretti e gli occhiali. Infine uscirono sulla soglia. Uno di loro, probabilmente il più elevato in grado, rivolgendosi al ferroviere – e forse a noi tutti – disse qualche parola, sicuramente un augurio o un saluto.
Lentamente andarono fino alla loro motocicletta, una grossa Zündapp con il sidecar, l’ufficiale più elevato in grado prese posto nel sidecar, gli altri due sulla motocicletta, il motore si avviò, fu come l’esplosione di una granata nella fragile aria gelata, una nuvoletta di fumo nero uscì dal tubo di scappamento, le ruote slittarono sulla neve scivolosa, gli altri avanzavano in massa, sempre più vicini, sempre più vicini, già distinguevo le facce, scure e larghe come padelle vecchie, un’innumerevole moltitudine di facce, macchie sotto gli elmetti, l’enorme bosco si avvicinava, i tedeschi partirono tranquillamente verso occidente, per la strada che portava alla città, solo la scia di fumo si stendeva ancora bassa sulla neve tra gli alberi, e allora quel mio ferroviere, con il viso sempre immobile, lo sguardo fisso al nero bosco di russi, disse qualcosa sul nostro futuro. Non so ripetere le sue parole. Forse parlò di Dio. O forse del sapone da barba.