Archivio blog

venerdì 11 marzo 2022

..e mi domandi cosa è la guerra... Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade. (La Storia - Elsa Morante)

Un giorno di gennaio dell'anno 1941, un soldato tedesco di passaggio, godendo di un pomeriggio di libertà, si trovava, solo, a girovagare nel quartiere di San Lorenzo, a Roma. Erano circa le due del dopopranzo, e a quell'ora, come d'uso, poca gente circolava per le strade.
La Storia è un romanzo storico del 1974 scritto da Elsa Morante. Considerata come una delle sue opere più conosciute, ma allo stesso tempo anche criticate e discusse, l'autrice impiegò almeno tre anni per comporla e volle che fosse data alle stampe direttamente in edizione tascabile, in brossura e a basso costo. Il romanzo venne, perciò, pubblicato nel giugno del 1974 nella collana Gli Struzzi dalla casa editrice Einaudi.
Ambientato nella Roma della seconda guerra mondiale e dell'immediato dopoguerra, negli anni fra il 1941 e il 1947, come romanzo corale è pretesto per un affresco sugli eventi bellici visti con gli occhi dei protagonisti e della popolazione ferita.
I quartieri romani martoriati dai bombardamenti e le borgate di periferia affollate da nuovi e vecchi poveri (San Lorenzo, Testaccio, Pietralata, il ghetto ebraico di Roma) e le alture dei vicini Castelli Romani, in cui si muovono le formazioni partigiane di opposizione al nazifascismo e alcuni dei protagonisti della vicenda che scandisce la narrazione come un naturale fil rouge, vengono descritti con realismo, ma anche con una marcata visionarietà poetica.
Dal romanzo è stato tratto nel 1986 il film omonimo diretto da Luigi Comencini.
Il 19 luglio del 1943, in pieno giorno, Roma venne bombardata dall’aviazione anglo-americana. Fu una delle più grandi stragi della Seconda guerra mondiale in Italia: le bombe sganciate da centinaia di aerei da guerra fecero circa tremila morti, circa diecimila feriti, e rasero al suolo intere aree della città. Mussolini non era a Roma, si trovava a Feltre, dove aveva incontrato Hitler: gli Alleati erano sbarcati pochi giorni prima in Sicilia, e occorreva impostare un piano di difesa. Ma era troppo tardi. Una settimana dopo, il 24 luglio, Mussolini veniva sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo, e il 25 luglio veniva arrestato. Poco più di un mese dopo, l’8 settembre, l’Italia si arrendeva agli Alleati.
Elsa Morante descrive distesamente l’atmosfera dei giorni che precedono quello del bombardamento. Mentre le città industriali del nord vengono bombardate quasi ogni giorno, la vita nella capitale scorre abbastanza tranquilla. Il primogenito di Ida, Nino, che è un giovane sbruffone, ride delle paure della madre e minimizza il pericolo di attacchi aerei su Roma. L’autrice rende i suoi pensieri e le sue parole attraverso il discorso indiretto libero: «Questi allarmi di Roma, invece, erano tutte commedie: giacché era risaputo che, per un patto segreto di Ciurcìl col papa, Roma era decretata città santa e intangibile, e le bombe, qua, non ci potevano cascare». È Nino che parla, qui (sua è anche la storpiatura del nome del primo ministro britannico, Winston Churchill), ma ciò che dice corrisponde a ciò che molti romani pensavano e dicevano, nei primi mesi del 1943. Roma, la città santa della cristianità, non poteva essere bombardata. E invece…
La mattina del 19 luglio Ida e il piccolo Useppe vanno al mercato per fare un po’ di spesa. Ed ecco quello che succede.
Una di quelle mattine Ida, con due grosse sporte al braccio, tornava dalla spesa tenendo per mano Useppe. Faceva un tempo sereno e caldissimo. Secondo un’abitudine presa in quell’estate per i suoi giri dentro al quartiere, Ida era uscita, come una popolana, col suo vestito di casa di cretonne stampato a colori, senza cappello, le gambe nude per risparmiare le calze, e ai piedi delle scarpe di pezza con alta suola di sughero. Useppe non portava altro addosso che una camiciolina quadrettata stinta, dei calzoncini rimediati di colore turchino, e due sandaletti di misura eccessiva (perché acquistati col criterio della crescenza) che ai suoi passi sbattevano sul selciato con un ciabattio. In mano, teneva la sua famosa pallina Roma (la noce Lazio durante quella primavera fatalmente era andata perduta).
Uscivano dal viale alberato non lontano dallo Scalo Merci, dirigendosi in via dei Volsci, quando, non preavvisato da nessun allarme, si udì avanzare nel cielo un clamore d’orchestra metallico e ronzante. Useppe levò gli occhi in alto, e disse: «Lioplani». E in quel momento l’aria fischiò, mentre già in un tuono enorme tutti i muri precipitavano alle loro spalle e il terreno saltava d’intorno a loro, sminuzzato in una mitraglia di frammenti. «Useppe! Useppe!» urlò Ida, sbattuta in un ciclone nero e polveroso che impediva la vista: «Mà, sto qui», le rispose, all’altezza del suo braccio, la vocina di lui, quasi rassicurante. Essa lo prese in collo, e in un attimo le ribalenarono nel cervello gli insegnamenti dell’UNPA (Unione Nazionale Protezione Antiaerea) e del Capofabbricato2: che in caso di bombe, conviene stendersi al suolo. Ma invece il suo corpo si mise a correre senza direzione. Aveva lasciato cadere una delle sue sporte, mentre l’altra, dimenticata, le pendeva ancora al braccio, sotto al culetto fiducioso di Useppe. Intanto, era cincominciato il suono delle sirene. Essa, nella sua corsa, sentì che scivolava verso il basso, come avesse i pàttini, su un terreno rimosso che pareva arato, e che fumava. Verso il fondo, essa cadde a sedere, con Useppe stretto fra le braccia. Nella caduta, dalla sporta le si era riversato il suo carico di ortaggi, fra i quali, sparsi ai suoi piedi, splendevano i colori dei peperoni, verde, arancione e rosso vivo.
Con una mano, essa si aggrappò a una radice schiantata, ancora coperta di terriccio in frantumi, che sporgeva presso di lei. E assestandosi meglio, rannicchiata intorno a Useppe, prese a palparlo febbrilmente in tutto il corpo, per assicurarsi che era incolume3. Poi gli sistemò sulla testolina la sporta vuota come un elmo di protezione. Si trovavano in fondo a una specie di angusta4 trincea, protetta nell’alto, come da un tetto, da un grosso tronco d’albero disteso. Si poteva udire in prossimità, sopra di loro, la sua chioma caduta agitare il fogliame in un gran vento. Tutto all’intorno, durava un fragore fischiante e rovinoso, nel quale, fra scrosci, scoppiettii vivaci e strani tintinnii, si sperdevano deboli e già da una distanza assurda voci umane e nitriti di cavalli. Useppe, accucciato contro di lei, la guardava in faccia, di sotto la sporta, non impaurito, ma piuttosto curioso e sovrapensiero. «Non è niente», essa gli disse, «non aver paura. Non è niente». Lui aveva perduto i sandaletti ma teneva ancora la sua pallina stretta nel pugno. Agli schianti più forti, lo si sentiva appena appena tremare: «Niente…» diceva poi, fra persuaso e interrogativo. I suoi piedini nudi si bilanciavano quieti accosto5 a Ida, uno di qua e uno di là. Per tutto il tempo che aspettarono in quel riparo, i suoi occhi e quelli di Ida rimasero, intenti, a guardarsi. Lei non avrebbe saputo dire la durata di quel tempo. Il suo orologetto da polso si era rotto; e ci sono delle circostanze in cui, per la mente, calcolare una durata è impossibile. letteredidattica.deascuola.it - Roma bombardata-

Nessun commento:

Posta un commento