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sabato 22 giugno 2019

Il processo di Franz Kafka, nella versione tradotta da Primo Levi Einaudi.

Copertina del libro Il processo di Franz Kafka 
«Subito bussarono alla porta, ed entrò un uomo che in quella casa K. non aveva mai visto prima...».
Un capolavoro della letteratura del Novecento: Il processo di Franz Kafka, nella versione tradotta da Primo Levi Einaudi, Torino 1995 (prima edizione 1983). È un classico da “leggere” – “rileggere”.
Pubblicato postumo nel 1925,   può essere inteso come emblema della condizione umana segnata dall’angoscia e dalla solitudine, oppressa da potenze misteriose e imperscrutabili: Joseph K., il protagonista, è processato e poi condannato per una colpa non commessa, ignota al «tribunale» stesso.
1. Senza passato e senza futuro
Nel Processo, scritto in pochi mesi nel 1914, tutto è predisposto a dovere: c’è il dettaglio di chi batte le mani dopo che Josef K., isolato fra tanti individui, ha inavvertitamente alzato la voce, come se quel gesto facesse parte di un copione. (p.48) In quella domenica misteriosa il signor K., accusato senza saperne il motivo, entra come protagonista sotto i riflettori di un “grande organismo” (come lo chiama Roberto Calasso in K., pubblicato da Adelphi nel 2002), ovvero il tribunale a cui “appartiene tutto”. (p. 164) Non si parla di un sistema giudiziario, ma di un’intera società. Semmai esistano degli eventi passati, Josef K. non sembra averne coscienza, semmai ci sarà un futuro, non se lo chiede. L’incontro con lo zio Karl – che vorrebbe “ben sapere come va a finire” (p. 104) mentre Josef K. è immerso, quasi tranquillo, nel suo ruolo di accusato – dimostra bene l’assenza, nel protagonista, di una preoccupazione per il passato o per il futuro. Malgrado questo, nel marasma altamente espressivo, assurdo delle immagini ridondanti, il Kafka visionario mette in scena il sapore spaventoso di ciò che accadrà vent’anni dopo in Europa, con l’ascesa dei totalitarismi e la perdita della volontà nell’individuo.
Nel romanzo invece, per il protagonista Josef K. esiste un presente da capire e sviscerare, senza causa e senza effetto, il processo, l’accusa. Il processo è grottesco e mostra la mediocrità del popolo, l’immediatezza del populismo, le parti politiche che battono le mani a Josef K. oppure si mostrano serie e impassibili. Sembra il pubblico a teatro; a tratti i personaggi che circondano K. sembrano marionette, come il picchiatore (capitolo cinque), il sostituto (capitolo sei), l’avvocato, l’industriale o, sopra a tutti, il pittore, personaggio simbolo, forse portavoce del “grande organismo”, che agisce nel settimo capitolo: un capolavoro. Josef K. trascorre quindi momenti di realtà rappresentata come sul palco. Anche se non volesse far parte del sistema rappresentato, dovrebbe dirlo, farlo dall’interno dello stesso.
A tratti i dialoghi sono palesemente recitati dai personaggi. Josef K. fa parte di questa prigione, desidera farne parte perché vuole capire, non fugge mai, anzi fugge dalla libertà (si veda Fuga dalla libertà di Eric Fromm, dove si spiega anche la fuga dell’uomo dalla libertà, sulla rotta dei totalitarismi). C’è un’ironia gelida e spaventosa, un’angoscia novecentesca che annega e si annida nel ridondante agire degli uomini (consiglio caldamente la visione del film L’uomo senza passato di Aki Kaurismäki, 2002) . Kafka ne fa una tragedia, con un capro espiatorio.
Josef K., sacrificatosi davanti alla società, è un individuo solo. La corruzione sta alla base del sistema, il sistema stesso è corruzione.
Non si lascerà mai convincere a corrompere chicchessia, a qualunque artifizio essi ricorrano, fra i tanti di cui dispongono (p.60). […] Lo tormentava il pensiero di non essere riuscito ad impedire la bastonatura, ma non era colpa sua […] K. aveva anche visto benissimo i suoi occhi (quelli del picchiatore) si erano illuminati al vedere la banconota: era chiaro che aveva picchiato sul serio solo allo scopo di alzare un pochino il prezzo della corruzione; e K. non avrebbe fatto economia, gli stava veramente a cuore di mettere in libertà le guardie (p.97)

Franz Kafka Scrittore boemo di lingua tedesca. Figlio di un agiato commerciante ebreo, ebbe col padre un rapporto tormentoso, documentato nella drammatica "Lettera al padre" (1919). Il fidanzamento con Felice Bauer, interrotto, ripreso, poi definitivamente sciolto, la relazione con Dora Dymant, con cui convisse dal 1923, testimoniano l'angosciata ricerca di una stabilità sentimentale che non fu mai raggiunta. Intraprese lo studio della Giurisprudenza, si laureò nel 1906 e si impiegò in una compagnia di assicurazioni. Malato di tubercolosi, soggiornò per cure a Riva del Garda (1910-12), poi a Merano (1920) e, da ultimo, nel sanatorio di Kierling, presso Vienna, dove morì.

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