La cosa più affascinante di Sarajevo è appunto questa testarda urbanità che sopravvive agli inverni, ai cannoni, alle restrizioni alimentari, all'assenza di luce, acqua e gas. Non capisco davvero perché le grandi televisioni mondiali siano andate laggiù a cercare immagini di morte. Non hanno capito nulla. In guerra, la vera immagine di Sarajevo era la vita. Il suo centellinare ogni residuo comfort, il suo attaccamento testardo ai riti di un'antica vita borghese. A due passi dal rancido delle trincee, i teatri funzionavano, la gente sapeva di sapone, le donne mettevano il rossetto e facevano la messa in piega, persino i soldati tornavano dal fronte con una loro pallida, estenuata nobiltà.
Nella moviola della mia mente, Sarajevo è un signore in giacca e cravatta che esce perfettamente sbarbato da un rudere che è casa sua, è il vecchio Mujo Kulenović che aggiusta il tetto della bottega, è un musulmano che in centro quasi si inchina davanti a un parroco cattolico. Sarajevo è una pentola che non ha mai toccato carne di maiale e che nelle case ortodosse e cattoliche è sempre pronta per gli ospiti di religione islamica; è Kanita Fočaka che a trecento metri dalle linee serbe apre una scuola di buone maniere; è una fila di bambini disciplinati che vanno, in mezzo alla guerra, a imparare il bon ton.
(Paolo Rumiz, da "Maschere per un massacro", Editori Riuniti, Roma 1996)
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